Mi arrampicai sul mandorlo: Abbas e io l’avevamo chiamato Shahida, “testimone”, perché passavamo moltissimo tempo tra i suoi rami a guardare gli arabi e gli ebrei [...] Avevamo battezzato l’ulivo a sinistra Amal, “speranza” e quello a destra era Sa’dah, “felicità”.
«Com’è possibile che l’ebrea americana Michelle Cohen Corasanti sia stata in grado di descrivere con tanta fedeltà la realtà palestinese nel Triangolo? La risposta è semplice. In quanto ebrea, a Michelle è stata concessa la possiblità di vivere all’interno dei confini stabiliti dall’armistizio del 1949 e di osservare in prima persona la vita dei palestinesi rimasti all’interno di quello che sarebbe diventato lo Stato d’Israele [...] Inoltre Michelle è arrivata sul luogo con la mente aperta e il desiderio di conoscere la verità». Questo è l’inizio della postfazione scritta da Ahmad Abu Hussein, palestinese, collega universitario di Michelle Cohen Corasanti, amico strettissimo e compagno di esperienze, ora docente e scrittore. Il Triangolo è un’area del territorio israeliano compreso all’interno della cosiddetta linea verde, stabilita dagli accordi del 1949, che segna il confine tra Israele, Libano, Siria, Egitto e Giordania. Il Triangolo comprende undici città a prevalenza araba. È all’interno di questa realtà, che oggi ha i riflettori del mondo puntati, che si svolge la vicenda umana e familiare di Ichmad Hamid, voce narrante di Come il vento tra i mandorli, un romanzo bellissimo, struggente e crudissimo che come tutta la buona letteratura apre una finestra dolorosa e agghiacciante su una realtà che tutti oggi si vantano di conoscere ma di cui in realtà non sappiamo proprio niente, se non quello che i nostri occhi miopi da occidentali vogliono vedere.
Prosegue Hussein: «In quanto palestinesi sotto il controllo israeliano dal 1948 in poi, siamo stati isolati dal resto del mondo arabo. La maggior parte dei palestinesi ha vissuto fino al 1966 sotto la legge marziale israeliana, che era in realtà la legge marziale britannica [...] per noi era giudicato un crimine anche solo avere contatti con qualsiasi arabo che non provenisse da quello che poi, nel 1948, diventò Israele. [...] paghiamo tasse israeliane e frequentiamo scuole e università israeliane. Non. abbiamo scelta».
«Non abbiamo scelta». La scelta, che è strettamente connessa alla libertà, è il tema del romanzo, a tutti i livelli. Nella famiglia di Ichmad le scelte dei singoli componenti determineranno le scelte di tutti gli altri. Ma è sempre così, no? No, perché nella nostra esperienza quotidiana da occidentali non sempre la scelta di qualcuno decide la sopravvivenza della famiglia intera. Io posso andare a studiare all’estero, lavorare, guadagnare, farmi una famiglia... posso anche vedere i miei solo alle feste comandate e tenere tutti i soldi che guadagno per me, per poi passarli ai miei figli. Per noi è normale. Ma per i palestinesi che vivono una situazione di prigione perenne non possono fare questo ragionamento. E in più ogni giorno devono scegliere come pensarla in merito agli occupanti – chiamiamoli col loro nome –; scegliere se studiare e far morire di fame sé e i propri familiari o andare a lavorare e mollare gli studi; scegliere se adeguarsi ai matrimoni combinati o innamorarsi e rompere con i genitori; scegliere se aiutare i ribelli o no; scegliere ogni mattina come comportarsi...
Un uomo che muore di fame ha il diritto di prendere un po’ dell’unico cibo rimasto, anche se questo significa che qualcun altro ne avrà di meno, a patto che ne resti abbastanza per entrambi.
Nella famiglia Hamid le scelte sono molto diverse, dettate anche come sempre accade dalla fortuna. Ichmad incontra un professore che vede in lui il genio scientifico e lo prende sotto la sua ala. Finisce a lavorare con il professor Menachem Sharon, ebreo, e a trasferirsi negli Stati Uniti con il ruolo di professore. Il fratello Abbas, rimasto storpio da un incidente sul lavoro, diventa invece un membro attivo di Hamash... Una ferita aperta in una famiglia già “orfana” del padre Baba, condannato per terrorismo a 14 anni di galera – sulla vicenda non dirò nulla per non spoilerare troppo.
Le figlie femmine e la madre sono mogli e madri alla maniera araba.
Ma la grande differenza tra Ichmad e Abbas sta nel rapporto che hanno con gli israeliani: di differenziazioni e collaborazione Ichmad; di odio e sete di vendetta Abbas.
La scelta: Ichmad va via dal Triangolo, va a fare carriera in Occidente e con i suoi soldi mantiene la famiglia a casa; Abbas resta per sempre fedele alla sua gente, nella sua terra, supporta gli altri e dona loro tutti i suoi averi, anche a scapito dei figli. Non vedrà più madre, padre e fratelli. Chi ha ragione? Per tutto il romanzo seguiamo Ichmad, che scrive in prima persona, e quindi siamo solidali con lui, con le sue scelte, con la sua apertura mentale: lavora con un ebreo, è amico di ebrei, sposa un’ebrea... Ma poi arrivano le pagine su Abbas, e allora vediamo la sua generosità, il suo spirito di sacrificio, la sua disperata ricerca della libertà per il suo popolo...
Chi ha ragione? È o non è la domanda che sta lacerando i nostri tempi inquieti? La risposta è complessissima, fatta di milioni di cose diverse, forse impossibile. Ma la letteratura apre spiragli, guarda con un cannocchiale e può ingrandire cose distantissime, ci porta i sussurri e le grida della Storia, raccatta pezzi di vite e li mette insieme... non risponde, ma raccoglie.
Un romanzo come Come il vento tra i mandorli fa esattamente questo: raccoglie le esperienze di vita vera, basata sull’osservazione empirica e crea una risposta sfaccettata, complessa, composita. E come la buona letteratura apre un’ulteriore domanda: è più utile alla propria gente lottare dall’interno con le armi e il proprio corpo o studiare, prendere un Nobel e contribuire al progresso dell’umanità tutta? Ai posteri l’ardua risposta, e a noi il desiderio di guardare alle cose senza giudizio, ma con consapevolezza e informazione. Per evitare altri errori. Ma, ahimè, non è mai così. Oggi meno che mai...
Prima che Israele murasse Gaza i palestinesi attraversavano di continuo il Valico di Erez [...] Israele l’ha fatta diventare una miniera di manodopera a basso costo. Questa povera gente non aveva scelta, non potevano certo sviluppare un’economia per conto loro. E appena sono diventati abbastanza indipendenti Israele li ha tagliati fuori dal mondo [...] Il sistema idrico e quello fognario stanno collassando. Israele non permette di fare entrare i pezzi di ricambio per ripararli. La gente di Gaza non può bere l’acqua e gli israeliani non lasciano passare il camion con l’acqua potabile.
Pensiamo davvero che ovunque si possa scegliere cosa fare della propria vita... ?
Come il vento tra i mandorli, di Michelle Cohen Corasanti, Feltrinelli, 2013, 372 pagine. Traduzione di Alice Pizzoli. Da leggere la postfazione.