Le storie delle famiglie sono spesso le storie dei dolori delle famiglie; come se il dolore fosse l’unica cosa che vale la pena essere raccontata. Chissà, forse è vero, ma è anche vero che la naturale alternanza vita/morte/vita non sempre porta con sé dolore. Le famiglie sono organismi complessi, appartenenti a specie ibride, incroci tra creature che odiano, amano, piangono, cambiano, evolvono, involvono, sperano, scappano, insistono, gridano, si riproducono, crescono... o forse tutto l’opposto. Organismi vivi che si contorcono intorno ai genitori solitamente, o a chi viene eretto a genitore putativo, come fedeli che danzano intorno alle statue dell’idolo di turno. O che allontanano da esso in una sorta di autoscomunica salvifica. L’allontanamento o l’emulazione del genitore sembra essere alla base di tutti i meccanismi umani. Così come i corsi e ricorsi nelle vite dei componenti della famiglia. Non sono molto d’accordo con questo schema ma i romanzi costruiti intorno a questo concetto, di solito sono romanzi riusciti. E poi, diciamolo, Cunningham in questo è davvero bravissimo.
La famiglia di Carne e sangue vive una parabola a tratti gioiosa a tratti dolorosa, che ha il proprio gruppo scultoreo genitoriale in Constantine e Mary Stassos – immigrato greco lui, di origini italiane lei –, genitori di Susan, Billy e Zoe. Granitica nel proprio ruolo di figlia responsabile, Susan ha una famiglia tradizionale e forma con Todd un secondo, collaterale gruppo scultoreo come genitori del “perfetto” Ben; Billy scopre presto che a causa delle sue preferenze sessuali, sarà destinato a ricoprire il ruolo di quello che se va sbattendo la porta; Zoe, amatissima e ribelle, avrà un ruolo tragico ma inevitabile, da mamma single del fuori dagli schemi e dolcissimo Jamal.
Il romanzo, scritto come sempre divinamente da Michael Cunningham, accompagna tutti i personaggi lungo le loro vite, più o meno banali, più o meno miserabili. Personaggi «secondari” veramente ben disegnati – Cassandra, Harry, Todd, Magda... – danno corpo a vicende che sono quelle di ognuno di noi, immerse nell’atmosfera perbenista e moralmente violenta dell’America che va dagli anni dai Sessanta ai Novanta. Anno in cui gli Stati Uniti conoscono l’Aids, l’omosessualità viene demonizzata e anche grottescamente portata alla ribalta; in cui era quasi accettato che un padre alzasse le mani o che una moglie vivesse come casalinga frustrata sognando invano l’indipendenza. E poi tutto cambia e la società evolve e all’evoluzione della società corrisponde un’involuzione dell’ambiente familiare...
I figli fanno scelte che Constantine non approva, che Mary fatica a comprendere; crescono in modi diversi, ognuno fedele alla propria natura, ma sempre in conflitto/concerto con il retaggio familiare. Susan ha una famiglia tradizionale e tendenzialmente noiosa; Billy sceglie di chiamarsi Will e di assecondare la propria tendenza sessuale, trovando l’amore laddove non pensava capace di farlo; Zoe è Zoe, ribelle a modo suo, libera a modo suo, vittima di se stessa e delle sue scelte, destinata all’orrore, ma anche a una qualche forma di serenità. La famiglia è la culla e la tomba di tutto, la propria e quella che si costruisce, in un’ininterrotta – almeno per un po’ – catena di errori, meraviglia, risate e interminabili pianti.
Ma tutto scorre, tutto prosegue, nelle pieghe dell’universo e della Storia.
E dopo il sublime Le ore e un forte e straripante Una casa alla fine del mondo, non delude mai.
Carne e sangue, di Michael Cunningham, Bompiani, 2008 (1995), 394 pagine. Traduzione di Ettore Capriolo (ora edito da La nave di Teseo)