Le cose belle sono belle.
Le cose belle sono difficili.
Le cose belle sono nobili.
Nessuna delle tre traduzioni è scorretta. Nell’antica Grecia bellezza, difficoltà e nobiltà non erano ancora concetti separati. Proprio come in coreano la parola bit significava fin dall’origine sia «luce» che «colore»
Ecco, molto meglio per me questo L’ora di greco rispetto al tanto più famoso La vegetariana. Qui Han Kang fa scegliere la sua protagonista di non parlare. Non è “matta”, è triste e la sua tristezza la porta a desiderare un allontanamento sociale che per lei avviene con la menomazione dello strumento di comunicazione primario, in un mondo in cui il genere umano pretende di abbattere le distanze – con gli aerei, Internet, il cellulare – ma che ancora non ha trovato la chiave per inventare una lingua comune. E allora decide di studiare una “lingua morta”, come morto è il suo cuore, dopo il divorzio, la perdita del figlio, che viene affidato in esclusiva al padre, e la morte della madre. È troppo. Dove incanalare tutta la sofferenza? In se stessi, un un angolo da non aprire mai; non attraverso quel canale da cui passa l’aria e che emette suoni. Come una ferita, che se la premi evita di buttare sangue...
Non parlare è per lei un atto volontario. Non è invece volontaria per l’insegnante di greco la perdita dell’altro strumento di comunicazione tra noi e il mondo: la vista. Una malattia congenita lo renderà cieco prima o poi. Lui lo sa. Ne soffre. E ne soffre ancora di più quando si avvicina alla donna: cosa succederà quando lui non potrà vedere e lei non parlerà? Non potranno più comunicare, tutto finirà, non si “vedranno più”... ma forse stare insieme è ancora possibile. Anzi, necessario...
Han Kang ha definito questo romanzo: «Il lieto fine de La vegetariana»... E in effetti il lieto fine arriva davvero come una carezza, forse quasi inaspettata vista la quantità di dolore che ci accompagna per tutto il libro.
Mentre avanziamo un passo dopo l’altro su una stretta trave da ginnasta, scartando coraggiosamente le conclusioni errate, oltre la rete di sicurezza delle risposte sensate che ci diamo vediamo ondeggiare il silenzio simile a uno specchio d’acqua livido. Eppure, continuiamo ugualmente a interrogarci e a darci delle risposte. Anche se i nostri occhi sono immersi nel silenzio, nella quieta minacciosa di quell’acqua livida che sale – e non cessa un istante di salire.
Le donne di Han Kang si automutilano, decidono coscientemente di privare il proprio corpo di qualcosa; privazioni che hanno molto a che fare con la sfera sociale; la vegetariana Yeong-hye con le sue “pretese” di non mangiare carne (in Corea!) mette in difficoltà marito e famiglia; ne L’ora di greco, non parlando, la donna decide di alzare un muro immaginario fra sé e il resto del mondo. Il ritorno a sé stesse è una via di fuga, la ricerca di un rifugio, che inevitabilmente porta all’isolamento; ma mentre Yeong-hye, essendo malata psichiatrica, non può accogliere le mani tese dall’esterno, la donna dell’Ora di greco può farlo e lo fa, tendendo la mano a sua volta, scrivendo parole salvifiche e d’amore sul palmo di un anima persa come lei. Siamo tutti persi, tutti desiderosi di trovare un alveo in cui sentirsi al sicuro, ma quando si trova, la forza per riconoscerlo è a sua volta un grande ostacolo. Trovare i modi per superarlo è più un atto di coraggio e forza rispetto al fermarcisi davanti.
Di questo romanzo ho amato la meravigliosa scrittura di Han Kang, così raffinata e cesellata anche nelle descrizioni più crude; così essenziale ed evocativa. La parte finale in cui si alternano le due “voci” è veramente sublime. E le parti in cui parla delle differenze/affinità tra la lingua greca e quella coreana; la descrizione dei simboli, della fonetica...
Una carezza dopo le sberle. E tanto, tanto senso di speranza e di amore.
L’ora di greco, di Han Kang, Adelphi, 2023 (2011), 162 pagine. Traduzione di Lia Iovenitti