Come spesso capita, ospito un pezzo di Antonella Cicalò, scritto dopo la lettura di Guerra e pace e Stalingrado. Non proprio un commento ai libri, ma un'ampia riflessione intorno ai temi che legano questi due capolavori alla tragica situazione bellica attuale. Eccolo.
Da quando è iniziato il conflitto russo-ucraino ho pensato che il principale problema – per noi che non abbiamo possibilità di intervenire materialmente - fosse in primo luogo comprendere. «Parola facile, pare, ma dalla densità intellettuale impressionante, un movimento fermissimo e deciso. È un contenere che è includere, un capire che è afferrare e una considerazione che riorganizza e ridisegna ogni assetto precedente».
In una scomposta canea generale, che prendeva in considerazione al massimo il giorno prima e il giorno dopo, si è capita subito una cosa: l'ignoranza generale di quanto fosse accaduto in quell'area dall'epoca dei… bersaglieri in Crimea.
Tra un'invettiva e l'altra abbiamo appreso che nel sud dell'Ucraina era in corso da almeno otto anni una conclamata guerra civile tra russi e ucraini, che coinvolgeva un'area chiamata Donbass e più specificamente le Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk, sempre definite «sedicenti» dalla nostra informazione, ma come abbiamo visto se lo dicevano da un po'.
Quando lo ha detto ufficialmente e pubblicamente anche Putin, qualche giorno prima dell'invasione, la frittata era fatta, come avrebbe intuito qualsiasi gallina intelligente preoccupata per le sue uova.
Ma non c'è niente di scherzoso nella tragedia che si andava svolgendo e che sta tuttora venendo avanti con la progressione di una valanga su un terreno disboscato a morte. Lasciando un deserto (Deserto russo richiama il Deserto rosso del film del regista dell’incomunicabilità Michelangelo Antonioni).
Lo so, è un lungo preambolo che non si pone minimamente i temi geopolitici alla base di questo conflitto, né di quello planetario tra Occidente e resto del mondo (Oriente direi che a questo stadio è riduttivo). Serve però a sottolineare che nel coacervo delle opposte propagande (così dichiaro di considerarle entrambe) l'unico strumento di orientamento alla mia portata era la letteratura russa di guerra.
Il termine è ovviamente riduttivo, e avrei dovuto per forza ridurre anche gli autori e i volumi: Guerra e pace di Tolstoj, Stalingrado e Vita e destino di Vasilij Grossman.
Ma pur nei limiti della scelta, la letteratura russa è sempre un affresco che si dilata per investire luoghi e narrazioni che sono l'anima stessa dell'Europa mitteleuropea: il sogno eterno della Russia. Dai tempi della flotta di Pietro il Grande, che si documentò in Inghilterra e chiamò a sé i migliori artigiani d'Occidente per le sue navi, alle cure termali di Dostoevskij in Germania e alle passeggiate torinesi di Tolstoj. Entrambi gli scrittori russi amarono e frequentarono l'Italia. È curioso come distinguessero l'incommensurabile cultura dalla gracilità del neonato Stato («Grande civiltà, piccolo Stato» la definiva l'autore de I fratelli Karamazov). Attuale direi.
È invece lo spessore della Nazione così come lo percepiscono i russi a dare nervi e muscoli al nazionalismo russo. Tra Guerra e pace (1867) e Stalingrado (1942) passano gli anni, cambiano i costumi e le forme di governo, ma la Russia e i russi sono sempre gli stessi, così come il loro modo di fare la guerra.
Il primato delle truppe di terra, lo spirito di corpo, un’immensa capacità di sacrificio, la pazienza – è il tempo che vince i conflitti – e il radicamento comune a tutte le classi sociali nella Madre Terra Russia che compendia ogni concetto di Patria.
Nell'Ottocento, nel Novecento come nel Duemila, la guerra russa è sempre uguale, non per passatismo (l’analisi del presente c’è ed è incisiva) ma per aderenza al proprio essere. Osservando l'oggi, sembra di scorrere un testo di storia militare. Si possono discernere errori, tirare conclusioni, comprendere caratteri... Perché sono quasi certa che nessuno dei potenti attori occidentali di questo conflitto si sia sottoposto a questo banale esercizio di lettura? I russi ridono, è vero, ma ciò non significa necessariamente derisione. I russi sono ironici (Gogol e Bulgakov ne sono maestri, e sono ucraini). I russi, dice chi li conosce bene, sono "terroni" nel senso di ospiti accoglienti ed esagerati, gesticolatori sanguigni, nostalgici del paese, qualunque esso sia.
Strano come non si siano lette grandi riflessioni sul dramma nel dramma di questa guerra: la compenetrazione anche fisica tra l'essere Russia e l’essere Ucraina, e le conseguenze sottovalutate di questa dolente sorellanza che le accomuna in quella che un altro scrittore, A. Nikitin, chiama «nostalgia sovietica». La storia è ancora troppo recente, i rimandi occidentali talvolta allo zar, talvolta all'Urss sono del tutto cretini.
Però, se ci fate caso, Putin è accomunato a un assortimento di monarchi locali, a Hitler, ma mai a Stalin, che per massacrare i compatrioti e affamare gli ucraini non stette indietro. Mai, tra i molti commenti, ho trovato consistenti tracce di Baffone. Forse perché gli dobbiamo la vittoria (minimo a pari merito) della Seconda Guerra Mondiale? Perché furono i russi ad aprire per primi i lager e a restarne sconvolti? Perché aspettarono gli americani per entrare a Berlino? Perché contarono per difetto 26 milioni di morti di cui 20 milioni di civili, contro i 170.000 mila militari americani e 8.000 civili?
Forse a questa Russia l'Europa deve un riconoscimento, in particolar modo l'Italia con il suo contingente fascista che in ogni caso i russi trattarono meglio dei tedeschi, stando a non poche testimonianze degli Alpini.
Da questa Italia, secondo me, i russi si aspettavano qualche cosa: non certo la tolleranza per un brutale sconfinamento, non l'avallo politico-militare di questa o quella annessione, né tantomeno una sconfessione del binomio Usa-Nato. Ma la salvaguardia dei rapporti culturali sì, iniziative russo-ucraine tra artisti sì. Quello di distinguere tra popolo, intellettuali e generali sì. Dovevamo farlo (e le persone normali lo fanno). Non così le istituzioni che ripudiano ballerini e violinisti, scrittori ed espositori d'arte, perfino i gatti (alle mostre feline i famosi blu di Russia non hanno accesso). Questo lo Stato laico doveva farlo in prima persona, non lasciare un debole filo al solo Vaticano (l'unico per altro ad avere la statura di mediatore universale, altro che Merkel e Tony Blair) o agli intellettuali (pochi) che hanno visto subito nella russofobia casereccia un pericolo vero per la democrazia.
Pagheremo la delusione dei russi e pagherà anche l'Europa che – dopo avere celebrato con Putin l’anniversario del D-day e i settantacinque anni di pace considerati il suo vero patrimonio (molto altro non è stato costruito) – non ha visto altro orizzonte che la guerra. Quella tradizionale, col missile, con il mega-bazooka, con tutto il catalogo che le imprese americane e non solo (ci siamo anche noi più di quanto l'opinione pubblica non sappia) non cessano di pubblicare e implementare.
Non un'iniziativa di diplomazia creativa, non una conferenza collettiva per i popoli europei disorientati, nulla di nulla. Afasica, azzerata nella sua mascolinità impotente; e non è che le giovani ministre scandinave abbiano dato prova di un femminino solido e di autonomia di pensiero, l’Europa è rimasta lì a cazzeggiare col Toro. Magari Putin non abboccava, ma almeno avremmo dato prova di una visione che escludendo la guerra “a priori” lo avrebbe costretto a un passo. Poi... se proprio proprio, fuoco alle polveri, come con Napoleone in Guerra e pace.
Qui siamo tornati, dopo eccessivo divagare, solo per apprendere che il Parlamento di Kiev ha vietato la musica e i testi russi. Ecco qua la futura Europa, baluardo d'Occidente. Quando Medvedev ironizza che al momento dell'ingresso dell'Ucraina l'Europa potrebbe non esserci già più, non fa la Cassandra, è Cassandra, proprio quella che detestavano perché ci prendeva sempre. Buone letture.
Guerra e pace, di Lev Tolstoij, Bur, 1451 pagine. Traduzione Maria Bianca Luporini
Stalingrado, di Vasilij Grossman, Adelphi, 884 pagine. Traduzione di Claudia Zonghetti