Ho preso questo libro in biblioteca perché ho incontrato il nome di Valentina D'Urbano su un gruppo di Facebook e mi avevano incuriosito i commenti entustiastici a un'autrice che, a onore del vero, non conoscevo. Poi ho scoperto che a mia colpevole insaputa era addirittura un caso letterario e che con il suo primo romanzo Il rumore dei tuoi passi (che in biblioteca non ho trovato) ha fatto un grande successo. Leggendo qualche intervista ho incontrato giornalisti che la paragonano alla Avallone di Acciaio e a, rullo di tamburi, Pasolini... Ora, lungi da me criticare i gusti dei lettori e l'operato di una scrittrice, non l'ho mai fatto e mai lo farò, ma quando sento parlare di fenomeni letterari mi si rizzano le antenne e penso sia normale approcciarsi a un testo in modo differente che se fosse un normale elaborato letterario, senza le trombe e i tamburi.
Questo suo terzo romanzo (dopo Il rumore dei tuoi passi e Acquanera), Quella vita che ci manca, devo dire mi ha lasciata un po' perplessa all'ombra che proietta sul muro la roboante scritta "fenomeno". Perché, mi perdonino gli estimatori, l'ho trovato un piccolo romanzo, scritto bene, con personaggi tratteggiati anche benino, ma che mi ricordano più Lorenzo Marone che Pasolini. E questo non vuole in nessun modo essere un commento sprezzante, anzi. Ben vengano i romanzi leggeri, ma non stupidi, che possono essere letti con spirito lieve.
La D'Urbano ambienta la vicenda in un quartiere periferico di una grande città (che poi è Roma), La Fortezza, che ricorda un po' Scampia a Napoli un po' il Gratosoglio a Milano, ma che in realtà assomiglia alle periferie degradate di qualsiasi metropoli. In un'intervista ha dichiarato di averlo chiamato così perché il termine "fortezza" «rappresenta nell’immaginario comune un luogo chiuso, desolato, spesso inespugnabile». E in effetti la sensazione è proprio quella: un luogo di confine in cui è difficile entrare e anche uscire, sia fisicamente che metaforicamente. Qui, in questo ambiente di degrado, disagio e delinquenza, vive la famiglia Smeraldo, una famiglia come tante, allargata, composta da una madre vedova e quattro figli avuti da tre padri diversi, due poco di buono e un defunto. Sandro, il papà di Valentino, una brava persona che voleva dare a tutti loro una vita comoda e onesta, muore in un incidente d'auto, gettando la famiglia nella miseria e nel dolore. Ma i fratelli, tre maschi (Vadim, Alan e Valentino) e una femmina (Anna), di cui uno – Vadim – affetto da ritardo mentale, si amano, si rispettano e si proteggono a vicenda. Soprattutto Alan, il fratello di mezzo, molto bello e molto "storto", caratteriale e violento, crea coi componenti della famiglia legami difficili e conflittuali ma attraversati da amore profondo e totale dedizione al benessere familiare, anche se questo comporta delinquere e ficcarsi in grossi guai con la legge e con gli altri malavitosi del quartiere.
La vita della famiglia Smeraldo si svolge così tra lavori sfiancanti, piccoli espedienti illegali e il tran tran quotidiano nella casa occupata in cui vivono, fino a che Valentino, il più piccolo, incontra Delia, ragazza un po' sbandata, senza famiglia – o perlomeno lei non ne parla mai – che col suo sorriso gli ruba il cuore. La loro storia è simile a quella di qualsiasi coppia di adolescenti, anche se Valentino ha vent'anni e Delia ventisette, anche se Valentino è poco più che analfabeta e Delia invece è laureata... le differenze vengono annullate dalla passione e dall'amore. Per un po'. Ma per quanto uno si voglia allontanare dalle cattive abitudini, dalle cose e dalle persone sbagliate, arrivando a rinnegare il proprio dna, il disagio, l'essere avvezzo ai guai e il proprio passato bacato non possono che chiedere lo scotto... e così tutto precipita.
Penso che il titolo Quella vita che ci manca sia molto azzeccato: a tutti i personaggi manca qualcosa, qualcosa di cui sono in caccia sempre, che magari hanno sfiorato ma che è scappata (come l'amore per Alan), che sempre sfugge loro, perché il destino ha voluto così. E la rabbia, la frustrazione, la sconfitta modellano giorno dopo giorno vite sospese nell'attesa. E anche quando poi quel qualcosa arriva, è come se non fosse in realtà destinato davvero a loro, ma solo una sfolgorante carota in cima a un duro bastone. E a volte il raggiungere la carota comporta la rottura del bastone...
Mi è piaciuto, l'ho trovato di piacevole lettura, con alcuni momenti molto toccanti. I personaggi sono coerenti e tutto fila, anche con qualche buon colpo di scena. Ma da qui al fenomeno letterario... mi fermo un attimo. Diciamo che non basta parlare di periferia e disagio per essere Pasolini, ecco.
Note a margine: In questo caso vorrei appuntare una domanda. Cosa rende al giorno d'oggi un romanzo un fenomeno letterario? Il pubblico? I premi, qualsiasi essi siano? Cosa? La lascio aperta, forse una risposta univoca non c'è.
La storia della D'Urbano mi ha ricordato un po' la storia di Lenù, de L'amica geniale della Ferrante. Una storia di emancipazione e rivalsa, che l'ha portata da un quartiere degradato a premi letterari attraverso la cultura e la coltivazione del proprio talento. Brava!
Consigliato a chi vuole una lettura non troppo pesante ma non superficiale, senza strapparsi i capelli, ma col piacere di una storia d'amore non scontata, con una buona dose di riflessione.
Quella vita che ci manca, di Valentina D'Urbano, Longanesi, 2014, 250 pagine.