Un romanzo che sembra un canovaccio. Questa l'impressione che mi ha fatto Il giardino di Amelia di Marcela Serrano, su cui avevo alte aspettative avendo amato Noi che ci vogliamo così bene.
Parte bene con una bella citazione di Eliot:
Io dissi alla mia anima
stai quieta e attendi senza speranza perché la speranza
sarebbe speranza per le cose sbagliate.
Ma poi il libro, semplicemente, non è all'altezza.
Il Cile di Pinochet, 1985: Miguel Flores viene mandato al confino dopo essere stato acciuffato durante una manifestazione e finisce nella tenuta della Novena, di proprietà di Amelia, vedova, somigliante a Catherine Hepburn, che la gestisce con polso fermo e molta eleganza. Amante della letteratura, della natura, del quieto vivere, Amelia prende sotto la sua ala il giovane Miguel, fino a portarlo in casa sua e a instaurare con lui una tenera amicizia, di cui si intuiscono i risvolti sentimentali nonostante l'impietosa differenza di età. Una notte la polizia viene a prendere Miguel che però riesce a scappare, lasciando Amelia in balia dei due poliziotti che la portano via e la torturano per giorni. Lì, la frattura tra Amelia e la sua vita sarà decisiva. Miguel – ignaro di ciò che è successo ad Amelia (anche se forse poteva intuirlo, ma a detta sua: «A vent'anni si è tutti figli di puttana» – va a Londra dove studia e fa una bellissima carriera come pubblicitario. A un certo punto prende contatto con l'amatissima cugina di Amelia, Sybil, anch'essa elegante, colta e raffinata. Anche con lei si instaura un'amicizia e i due cominciano a parlare di tante cose, non ultimo del destino di Amelia che Miguel apprende dalla lettura di una lettera che aveva mandato alla cugina dopo essere stata scarcerata.
È così triste sapere che i miracoli non esistono. In me convivono due donne, quella di prima e quella di adesso. Si guardano con diffidenza, come se mi avessero scacciata via da me stessa e non riuscissi più a ritrovarmi.
Queste parole smuovono Miguel sul momento, ma poi... poi non resta niente di questo shock per il resto del libro, se non una velata vergogna che però non si manifesta mai in azione. Ecco, non c'è azione in questo romanzo.
Il finale non lo svelo naturalmente, anche se, per chi l'ha letto, francamente non ne capisco molto il senso, anche perché spunta dal nulla una figlia di Amelia, Mel, che lo richiama alla Novena senza un motivo apparente...
La storia c'è, lo spunto è indubbiamente interessante e apre a moltissime possibilità narrative di parlare della terribile situazione cilena di quegli anni, o un pretesto per raccontare di un amore atipico, curioso e appassionante... invece rimane tutto su una superficie che non si increspa neanche nei momenti di snodo. È strano perché conosco la Serrano come scrittrice di descrizioni, a tratti verbosa quasi, soprattutto nel cavillare sui sentimenti dei personaggi. Qui invece abbiamo personaggi (pochi) descritti pochissimo, senza spessore, senza personalità. Miguel è un dissidente, incline alla lotta armata, che però a tratti sembra un mammone in cerca di coccole, ma non come una dicotomia interessante e approfondita, solo come uno che non sa bene dove andare a parare. Alla fine si rivela anche un bello stronzo, scusate il gergo, ma senza averne il carattere né il carisma. Boh. Amelia è una signora evidentemente colta e raffinata che però si lascia andare a una vita contadina (e va bene) e a un rapporto di cui francamente si capisce poco lo scopo: si sente giovane con un giovane? Lo desidera? Lo vorrebbe istruire? È incuriosita dal suo essere un “ribelle”. Boh. Il loro rapporto non va mai in profondità. Resta tutto molto superficiale e non si capisce nemmeno da dove deriva tutta la presunta intimità che viene raccontata nelle pagine finali da Miguel, che sembra legatissimo alla casa e ad Amelia, ma di cui possiamo solo intuire la portata del legame dalle sue parole, perché non emerge mai. Sybil odia Miguel per ciò che ha lasciato succedesse alla cugina, ma lo accoglie e lo tratta da amico fino a infatuarsi di lui e volerlo per sé. Perché? Da dove deriva questa attrazione? Non si capisce. Alla fine la figlia di Amelia, una volta morta la madre, invita Miguel alla Novena. Perché? Per vendicarsi? Per conoscere sua madre attraverso di lui? Mah, non si capisce. Si innamora di lui, ma com'è possibile? Perché? Per un senso di rivalsa nei confronti della madre? Era innamorata di lui già in passato? Non si sa.
Niente, questo libro mi ha lasciata completamente insoddisfatta. Sembra, appunto, un canovaccio. Appunti di quello che poteva essere un gran libro e invece rimane tutto appeso, con personaggi di cui non si capiscono né i caratteri né le intenzioni né tantomeno le scelte. Non c'è dolore, non c'è gioia, non c'è rimorso né rimpianto. Non c'è niente, se non qualche bella frase e qualche dialogo interessante, ma che, ahimè, rimane lì come una serie di parole messe bene insieme e nulla più. Tipo questa, che è sì bella, sì molto condivisibile, ma che poi cade nel vuoto e non viene valorizzata:
Rilke ha detto che la patria è l'infanzia. Esiste l'esilio volontario? In ogni infanzia c'è qualcosa del Paradiso perduto, soprattutto se è stata un'infanzia felice. Più tardi, anche se non intendi cambiare il tuo presente, il rimpianto dei primi anni ti modella in modo permanente.
Sarebbe stato bello leggere lo svolgimento del tema, insomma...
Il giardino di Amelia, di Marcela Serrano, Universale Economica Feltrinelli, 2016, 248 pagine.