Due bellissimi film che ho visto a poca distanza l'uno dall'altro e che hanno molte affinità.
In primo luogo, il modo in cui sono stati trattati dalla critica. Entrambi infatti sono stati “paragonati”: Il grande Gatsby di Luhrmann a quello di Clayton del 1974, La grande bellezza di Sorrentino a La dolce vita di Fellini. Assurdo.
Il Grande Gatsby è barocco, eccessivo, colorato. Forse manca dell’eleganza antica e un po’ austera del film di Clayton, ma Luhrmann è Luhrmann. Sarebbe come pretendere che Bernini dipingesse le figure bidimensionali di Giotto. Amando Luhrmann, ho visto un film di Luhrmann, e anche particolarmente in forma, secondo me.
La sensazione così materica che sta alla base dell’atmosfera nel libro omonimo di Scott Fitzgerald, quella sensazione di fine imminente, e «allora balliamo, beviamo, facciamo l’amore e facciamolo a mille perché fra poco tutto sarà finito», è in questa nuova versione del Grande Gatsby palpabile come una cosa solida. Le riprese delle feste, così eccessive, così dorate, così spudoratamente ostentate nella loro ricchezza, sono seguite da riprese al contrario quasi statiche, scure, “calme”, che creano un insieme di enorme decadenza. Chi vede solo i lustrini, i gioielli e i costumi da migliaia di dollari (un po’ eccessivi, non lo neghiamo, ma tenendo conto di certi budget spesi in prodotti culturali assolutamente inutili non mi sembra poi così grave), forse non ha guardato abbastanza a fondo. La società americana, a pochi anni dal crollo di Wall Street, è disegnata in modo esemplare: un gruppo di lemming ingioiellati che ballano forsennatamente verso la loro stessa fine.
E i personaggi sono poetici, tratteggiati in modo perfettamente leggibile: l’indifferenza garantita dai soldi in Daisy e Tom, la “statuarietà” (passatemi il termine) della golfista Baker, l’elegante sciatteria di Nick Carraway e l’integrità, la malinconia e la grandezza morale di Gatsby. Su tutto quella lussuosa, esagerata e straziante vacuità di una società sull’orlo del collasso, ma in piena fase di negazione.
Tutto questo nel Grande Gatsby di Luhrmann è spinto al limite: dorato, esagerato e proprio per questo ancora più tragico.
Unico neo: l’interpretazione di Daisy-Carey Mulligan lascia a desiderare, ma Daisy è talmente detestabile nella sua vacuità che la Mulligan risulta credibile proprio per il suo sguardo naturalmente assente.
La grande bellezza, parla in fondo dello stesso tema: la vacuità della società che perde i suoi talenti e la sua poesia come si perde una lente a contatto in una festa. Ti pieghi a cercarla in mezzo ai piedi della gente e non ci vedi più.
Jep Gambardella, il protagonista del film di Sorrentino (un Toni Servillo in stato di grazia), scrittore che non riesce a scrivere, è nella stessa situazione: è alla ricerca di una grande bellezza di cui vorrebbe scrivere, ma non trova niente perché la grande bellezza di Roma (fotografata in modo meraviglioso da Luca Bigazzi) viene oscurata dalla totale mancanza di sostanza della società in cui è costretto a muoversi.
Chi vorrebbe fare qualcosa (come il personaggio straziante, interpretato benissimo da Carlo Verdone) se ne va. Chi resta, accetta di essere qualcuno senza essere nessuno, come uno scrittore che ha scritto un solo libro e che non trova più ispirazione. I personaggi di contorno del film, interpretati da un ottimo cast (da una splendida Sabrina Ferilli, a Massimo Popolizio, da Galatea Ranzi a Iaia Forte, da Roberto Herlitzka a Massimo De Francovich eccetera) danno l’idea di questa totale assenza di concretezza da un lato e di poesia dall’altro.
Paragonarlo a La dolce vita? Perché? Sorrentino non è Fellini (cui penso questo film sarebbe piaciuto molto, tra l’altro). E soprattutto Roma 2013 non è Roma 1960 anche se la società romana al fondo è la stessa da secoli. iI film di Sorrentino è originale, poetico, feroce, a tratti un po’ retorico certo, ma è una bellissima fotografia in cui i sorrisi sono forse un po’ posticci, ma che si mette volentieri in cornice bene in vista. E anche se la lente a contatto non si trova più fra i supertacchi della gente ci si può sempre mettere gli occhiali. Saremo forse meno belli, ma ci si vede lo stesso.
Entrambi i film parlano della vacuità della società contemporanea e i due protagonisti: Gatsby e Jep, hanno non poche affinità.
Entrambi sono in un luogo e in un’epoca sbagliati, il passato è l’epoca giusta per loro: Gatsby per la storia d’amore con Daisy, Jep per il suo libro famoso. Entrambi combattono contro un presente ostile che non ha mantenuto le promesse, ma in cui c’è solitudine, anonimato e il riconoscimento sociale passa per feste inutili. Entrambi vivono con dolorosa ambivalenza il loro tempo, con uno struggente desiderio di tornare indietro. Ed entrambi faranno una brutta fine: Gatsby ucciso per colpe non sue; Jep, morto moralmente, non scriverà mai il suo libro.
Perché «così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato».