Mi arrampicai sul mandorlo: Abbas e io l’avevamo chiamato Shahida, “testimone”, perché passavamo moltissimo tempo tra i suoi rami a guardare gli arabi e gli ebrei [...] Avevamo battezzato l’ulivo a sinistra Amal, “speranza” e quello a destra era Sa’dah, “felicità”. «Com’è possibile che l’ebrea americana Michelle Cohen Corasanti sia stata in grado di descrivere con tanta fedeltà la realtà palestinese nel Triangolo? La risposta è semplice. In quanto ebrea, a Michelle è stata concessa la possiblità di vivere all’interno dei confini stabiliti dall’armistizio del 1949 e di osservare in prima persona la vita dei palestinesi rimasti all’interno di quello che sarebbe diventato lo Stato d’Israele [...] Inoltre Michelle è arrivata sul luogo con la mente aperta e il desiderio di conoscere la verità». Questo è l’inizio della postfazione scritta da Ahmad Abu Hussein , palestinese, collega universitario di Michelle Cohen Corasanti , amico strettissimo e compagno di esperienze, ora docent...
Le storie delle famiglie sono spesso le storie dei dolori delle famiglie; come se il dolore fosse l’unica cosa che vale la pena essere raccontata. Chissà, forse è vero, ma è anche vero che la naturale alternanza vita/morte/vita non sempre porta con sé dolore. Le famiglie sono organismi complessi, appartenenti a specie ibride, incroci tra creature che odiano, amano, piangono, cambiano, evolvono, involvono, sperano, scappano, insistono, gridano, si riproducono, crescono... o forse tutto l’opposto. Organismi vivi che si contorcono intorno ai genitori solitamente, o a chi viene eretto a genitore putativo, come fedeli che danzano intorno alle statue dell’idolo di turno. O che allontanano da esso in una sorta di autoscomunica salvifica. L’allontanamento o l’emulazione del genitore sembra essere alla base di tutti i meccanismi umani. Così come i corsi e ricorsi nelle vite dei componenti della famiglia. Non sono molto d’accordo con questo schema ma i romanzi costruiti intorno a questo concetto...